Il tanto atteso “regalo di Natale” di Trump agli americani è finalmente arrivato nelle modalità di una riforma fiscale volta a far pagare meno tasse ai contribuenti. Ma come spesso accade per l’economia americana (più in particolare quando questa è dettata da un governo a maggioranza repubblicana) non è tutto oro quel che luccica.
Se presa da un punto di vista di numeri assoluti, la riforma è più che positiva. Le imprese americane passeranno dal pagare un’aliquota del 35% (la più alta al mondo) al dover versare solo il 21% di IVA, una cifra addirittura inferiore a quella della media europea.
Il 2018 sarà quindi l’anno delle startup americane, quello in cui le multinazionali riporteranno in patria molti dei loro capitali, e quello in cui sempre più professionisti convertiranno i loro stipendi in titoli azionistici. L’America insomma diventa più competitiva, più forte nel settore della media e grande impresa.
Una riforma che piace ai ricchi
Lo sgravio però è proporzionale. Pagheranno di meno quelli che versano di più, e chi non versa niente (i poveri, insomma) non riceverà praticamente alcun beneficio. Si allargherà così il distacco fra lavoratori autonomi e dipendenti, con i secondi che ne usciranno fortemente penalizzati. Sono però i primi quelli che Trump deve tenersi buoni, coloro i quali vanno a comporre una delle lobby più radicate e influenti d’America, fondamentale per assicurarsi la vittoria alle prossime elezioni di mid-term e, perché no, alle prossime presidenziali.
Non solo. Un’America più forte vuol dire un’Europa più debole, meno competitiva. E gli analisti statunitensi non sono neanche concordi sul fatto che a lungo termine la riforma possa portare benefici sicuri. Il rischio è quello di un aumento dell’inflazione senza precedenti, aumento del debito e conseguente intervento della Federal Reserve, che potrebbe decidere di porre un freno all’innalzamento dei tassi di interesse, destinati anch’essi inevitabilmente a salire.